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La rabbia

“[…] La parola “aggressività” viene dal latino adgredi: avvicinarsi a qualcosa, porre mano a qualcosa, risolvere qualcosa. Se ingoio la rabbia, essa mi paralizza e mi sottrae energia. Se invece reagisco in modo adeguato si trasforma per me in una sorgente di energia importante…
Si tratta, prima di tutto, di percepire l’aggressività. Non devo agirla. In quel caso, infatti, l’aggressività mi ha in pugno. Si tratta di gestirla in maniera attiva e consapevole. Allora posso decidere liberamente come rapportarmi ad essa, se l’aggressività mi voglia soprattutto proteggere
dagli altri o se sia un impulso a mettere mano a qualcosa e a cambiarla. In tal caso l’aggressività verrebbe trasformata in una forza motrice positiva. […]”
(Anselm Grün)

La pace e la sofferenza

“[…] Vorrei ora riflettere sulla relazione tra pace e sofferenza. Per esempio prendiamo un moto di avversione o di tristezza e guardiamo a qualcosa che succede piuttosto spesso. Ossia saltiamo dentro questo moto di tristezza o di avversione con quella che si chiama proliferazione emotivo-concettuale. C’è dunque questo stato emotivo – l’avversione o la tristezza – e noi cominciamo a proliferare cioè ad aggiungere pensieri, confronti, immagini. Questa tipica reazione della mente non lavorata che chiamiamo proliferazione emotivo-concettuale, potremmo paragonarla a una betoniera perché solidifica questo stato, lo rende più solido, gli impartisce una densità, una pesantezza.
Ossia quando ‘lavoriamo’ qualsiasi stato emotivo e qualsiasi pensiero con questa potente betoniera stiamo letteralmente fabbricando sofferenza e fatica. Inoltre, insieme all’attività dellaproliferazione c’è anche la fede cieca nella proliferazione. Quindi possiamo dire che ci sono due attività: l’attività di proliferare e l’attività – se possiamo chiamarla così – di credere ciecamente a tutto quello che la mente dice. Però se noi sostituiamo queste attività del proliferare e di avere fiducia nella proliferazione, con l’ascolto consapevole, allora la situazione è completamente diversa. Dunque, c’è tristezza: entriamo in silenzio dentro la nostra tristezza. C’è avversione: entriamo in punta di piedi dentro la nostra avversione. Questo succede se abbiamo attivato la consapevolezza invece della proliferazione con relativa fede cieca. Il training è imparare piano piano a svegliarsi e a sostituire queste attività con l’attività osservante che è una cosa completamente diversa. Allora succede che nella sofferenza – tristezza e avversione sono sofferenza – c’è pace, ossia una disposizione all’apertura e alla presenza. Nel momento in cui noi riusciamo a tenere una presenza consapevole è come se fossimo un’altra persona, non siamo più bambini spaventati. C’è qualcosa di adulto nel rivolgersi alla consapevolezza, a differenza della ‘mente non lavorata’, che si schiera sempre in un processo continuo di identificazione. […]”
(Corrado Pensa, in SATI, gennaio-aprile 2021)

Dedica qualche momento al divino…

“[…] Ogni mattina quando la mente ancora non è occupata dalle incombenze della quotidianità dedica qualche momento al divino : inspira profondamente e domanda che tutte le benedizioni presenti nell’aria penetrino nel tuo corpo e si diffondano in ogni cellula . Espira lentamente impegnandoti a proiettare intorno a te gioia e pace . Fallo per almeno dieci volte. […]”
(Tratto da Aleph di Paulo Coelho)

Il sintomo

“[…] La via della consapevolezza consiste nell’accettarci così come siamo in questo momento, con o senza sintomi, con o senza dolore, con o senza paura. Invece di rifiutare la nostra esperienza come indesiderabile, ci chiediamo: «Che cosa mi dice questo sintomo? Che cosa mi rivela del mio corpo e della mia niente in questo momento?»
Ci permettiamo, almeno per un momento, di entrare nella piena sensazione del sintomo. Questo richiede coraggio, specialmente quando il sintomo è doloroso o quando abbiamo paura della morte. Ma puoi almeno fare un piccolo esperimento, avvicinarti un pochino al sintomo, diciamo per dieci secondi, tanto per guardarlo po’ più da vicino.
Quando facciamo questo, incontriamo anche le emozioni che il sintomo ci provoca. Se proviamo rabbia, rifiuto, paura, disperazione o rassegnazione, cerchiamo di osservare anche queste cose il più spassionatamente possibile. Perché? Per la sola ragione che è la nostra esperienza in questo momento. Questo è il luogo in cui ci troviamo. Se vogliamo guarire e muoverci verso un maggiore benessere, dobbiamo partire da dove siamo, non dà dove vorremmo essere. […]”
(Jon Kabat Zinn)

Afferrare la vita piena

“[…] Nessuno di noi può fermare il continuum della vita… Non possiamo evitare di invecchiare e nessuno sa quando morirà… Penserete forse che sia pessimista, ma in realtà sto solo sottolineando che spesso finiamo per soffermarci sulle cose che non possiamo cambiare, come il tempo che passa, piuttosto che su quelle che possiamo cambiare, come il modo in cui viviamo…
Perché non insegnare alla mente ad afferrare la vita a piene mani e ad andare dritto alle cose buone? […]”
(Gyalwa Dokhampa, La mente tranquilla, Ubaldini Editore, Roma 2016, p. 7)

 

La paura

[…] Per me la paura è come quando vedi un serpente. Se vediamo un serpente, la reazione immediata è di prendere un bastoni: a quel punto o lo ammazzi o scappi.
questo è l’istinto primordiale più stupido del mondo. lnvece quando hai paura dovresti fermarti, fare un passo indietro, uno solo, per rispetto della paura.
Nel caso del serpente, se fai un passo indietro, riesci a guardare meglio, magari ti accorgi che il serpente sta mangiando, che prende il sole, che non ti vuole azzannare.
Con la paura sentiresti già il morso alle caviglie, se invece ti fermi e guardi meglio, scopri che la realtà spesso diversa da quello che la paura ti fa vedere.
Così è nell’amore: la paura più grande è quella di essere abbandonati. Quando hai paura di essere abbandonato diventi velenoso, aggredisci o scappi.
Anche lì dovresti riuscire a fare la stessa cosa: fare un passo indietro, fermarti. Magari il tuo uomo, la tua donna non ti vuole abbandonare, magari sei te che in quel momento hai
bisogno di attenzioni e trasformi quel bisogno in paura; così ti convinci che tutto è finito, mentre la realtà è ben diversa. […]”
(Don Luigi Verdi)

Addestrare la mente

“Addestrare la mente a conoscere sé stessa e a non essere più prigioniera dei propri automatismi è, come abbiamo visto, la cosa più difficile da intraprendere, per noi esseri umani. Questo è particolarmente vero se siamo presi dal tentativo di raggiungere uno stato o un sentimento particolare, avendo idealizzato l’intera nozione di pratica della meditazione come un modo per ottenere stati d’animo particolarmente desiderabili. Se veniamo catturati nell’idealizzare il risultato della pratica della meditazione in questo modo, non c’è da stupirsi che la resistenza ad una pratica di meditazione regolare sorga quando non otteniamo ciò che ci prefiggiamo di raggiungere, specialmente se la nostra sofferenza non scompare istantaneamente. Forse l’avrai già sperimentato. È un enigma comune: di solito, nella vita, non ci impegniamo molto senza la prospettiva di un “ritorno sul nostro investimento”, in termini di tempo e di energia.
Sembra che ci siano diversi modi in cui potresti trovare utile riconoscere e lavorare con questa resistenza, in modo che, piuttosto che diventare un impedimento, essa diventi un tuo alleato, prima di tutto per approfondire la tua pratica e la tua motivazione di fondo per impegnarti in essa. L’attaccamento a un risultato, per quanto desiderabile, è comunque un attaccamento. E questo attaccamento è di per sé alla radice della sofferenza. Riesci a riconoscere questa catena causale attraverso la lente della tua esperienza, specialmente quando pratichi?
La cosa più importante ed efficace è trattare la tua pratica come una storia d’amore con la vita stessa, piuttosto che come un’altra faccenda nella tua giornata già troppo impegnativa. Riesci a riconoscere la preziosità e la fugacità dei tuoi momenti e della vita stessa? Riesci a tenere a mente questa realizzazione, specialmente nelle circostanze più impegnative, in modo che tutto, davvero tutto ciò che sorge nella vita possa essere visto come parte del “curriculum” della vita stessa? Puoi lavorare con essa, incorporandola nella tua pratica di meditazione come un ulteriore oggetto di attenzione? “
(Tratto da: Manuale di Mindfulness di Jon Kabat-Zinn)

I fondamenti della pratica – I sette pilastri

I sette pilastri

Per coltivare la consapevolezza e utilizzarla per guarire non basta seguire meccanicamente delle istruzioni. L’apprendimento e la trasformazione sono possibili solo in uno stato di apertura e ricettività. Nella pratica meditativa dovrai portare tutta te stessa. Non basta assumere una posizione meditativa e aspettare che succeda qualcosa. Coltivare la consapevolezza meditativa è un processo di apprendimento tutto nuovo. La nostra mente è così abituata a pensare di sapere quali sono i nostri bisogni e i risultati a cui dobbiamo arrivare, che è facile cadere nella trappola di cercare di controllare il processo e dirigerlo a modo nostro. Ma questo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello che facilita il lavoro della consapevolezza e della guarigione. La pratica della consapevolezza richiede solo che facciamo attenzione e guardiamo le cose così come sono. Non occorre che cambiamo nulla. E la guarigione richiede un atteggiamento di ricettività e accettazione, richiede una sensibilità alle connessioni e alla totalità. Nessuna di queste cose può essere forzata, proprio come non puoi costringerti ad addormentarti. Puoi creare le condizioni adatte per il sonno e poi lasciarti andare. Lo stesso vale per il rilassamento: non lo si ottiene con la forza di volontà. Lo sforzo di rilassarsi produce solo tensione e frustrazione. L’atteggiamento con cui pratichiamo determina in larga misura i benefici a lungo termine della pratica. Seconda la nostra esperienza nella clinica per lo stress, i pazienti che si accostano alla pratica con un atteggiamento scettico ma aperto sono quelli che ottengono i risultati migliori. L’atteggiamento di queste persone è simile a quello di uno scienziato che intraprende un esperimento: “Non so se questo lavoro funzionerà o meno, ho i miei dubbi, ma sono disposto a sperimentare, a metterci tutta la mia energia e a vedere cosa succede”. Nella pratica, sette aspetti dell’atteggiamento con cui ci accostiamo alla meditazione sono i pilastri fondamentali del lavoro. Essi sono: non giudizio, pazienza, “mente del principiante”, fiducia, non cercare risultati, accettazione e “lasciare andare”. Questi atteggiamenti vanno coltivati deliberatamente nella pratica. Essi non sono indipendenti: ciascuno di essi è legato a tutti gli altri. Quando sviluppi un particolare aspetto, questo accelera la crescita di tutti gli altri.

Non giudizio
Coltiviamo la consapevolezza assumendo l’atteggiamento di testimoni imparziali nei confronti della nostra stessa esperienza. Questo richiede che tu ti renda conto del costante flusso di giudizi e di reazioni alle esperienze interne ed esterne in cui sei coinvolta, e che impari a distaccartene. Quando cominciamo a fare attenzione all’attività della nostra mente, spesso ci stupiamo di scoprire che giudichiamo costantemente il contenuto della nostra esperienza. Tale abitudine innesca un insieme di reazioni meccaniche di cui non ci rendiamo conto e che spesso non hanno alcun fondamento obbiettivo. La costante attività giudicante della mente ci rende difficile trovare uno stato di pace interiore: la mente si comporta come uno yo yo, che tutto il giorno va su e giù lungo la corda dei nostri giudizi positivi e negativi. Per arrivare a una gestione più efficace dello stress, il primo passo è renderci conto di questa attività di giudizio automatica della nostra mente, aprendola possibilità di liberarci dalla tirannia dei giudizi. Durante la pratica della consapevolezza, è importante riconoscere questa attività giudicante della mente ogniqualvolta si presenta e assumere l’atteggiamento del testimone imparziale, osservandola semplicemente. Quando un giudizio si presenta, non occorre che lo reprimi. Basta che tu te ne renda conto. Non si tratta di giudicare il giudizio come “sbagliato”, complicando ulteriormente le cose.

Pazienza
La pazienza è una forma di saggezza. Essa nasce dalla comprensione e accettazione del fatto chele cose hanno un loro naturale tempo di maturazione. Un bambino può provare ad aiutare una farfalla a uscire dalla crisalide aprendo il guscio: ma questo “aiuto” non è particolarmente benefico per la farfalla. Un adulto sa che la farfalla può uscire dalla crisalide solo al momento giusto e che il processo non può essere accelerato artificialmente. In questo spirito, durante la pratica della consapevolezza, coltiviamo la pazienza nei confronti del nostro corpo e della nostra mente. Ci ricordiamo deliberatamente che non c’è ragione di irritarci con noi stessi perchè la nostra mente è costantemente occupata a giudicare o perchè ci sentiamo tesi, agitati o spaventati o perchè pratichiamo già da un po’ di tempo senza aver ottenuto risultati. Pazienza è essere semplicemente aperti a ogni momento e accettarlo nella sua pienezza così com’è, sapendo che, come la farfalla nella crisalide, le cose maturano quando è il loro tempo.

Mente del principiante
La ricchezza dell’esperienza del momento presente è la ricchezza della vita stessa. Troppo spesso lasciamo che i nostri pensieri e le nostre presunte conoscenze ci impediscano di vedere le cose così come sono. Tendiamo a dare per scontato il quotidiano e perdiamo di vista la straordinarietà dell’ordinario. Per cogliere la ricchezza del momento presente, dobbiamo coltivare quella che è detta, nello Zen, “mente del principiante”: una mente che è disposta a guardare ogni cosa come se la vedesse per la prima volta, significa lasciare cadere ogni aspettativa basata su esperienze precedenti. L’apertura della “mente del principiante” ci permette di restare ricettivi a nuove possibilità e di evitare di cadere nell’atteggiamento di routine “dell’esperto”, che spesso crede di sapere più di quanto sappia in effetti. Nessun momento è uguale un altro: ciascun momento è unico e contiene possibilità uniche. La “mente del principiante” ci ricorda questa semplice verità.

Fiducia
Sviluppare una fiducia di fondo nella tua esperienza e nelle tue sensazioni, è parte integrante dell’addestramento alla meditazione. E’ meglio fidarsi della tua intuizione e della tua propria autorità, anche se puoi fare degli “sbagli”, piuttosto che cercare sempre una guida fuori di te.
Questa fiducia in te stessa e nella tua fondamentale saggezza è molto importante in tutti gli aspetti della pratica della meditazione. Alcune persone si fanno talmente influenzare dalla reputazione e autorità dei loro insegnanti da non rispettare più le proprie sensazioni e intuizioni. Vedono nell’insegnante una persona molto più “avanzata” e saggia e ritengono di doverlo imitare in tutto, obbedire e venerare come un modello perfetto. Questo atteggiamento è del tutto contrario allo spirito della meditazione, che sottolinea il fatto di essere te stessa e di trovare in te la tua guida, è impossibile diventare uguale a qualcun altro, la sola cosa a cui puoi aspirare è diventare più pienamente te stessa. Gli insegnanti e i libri possono solo indicare la direzione e, anche se è importante essere aperta e ricettiva a quello che puoi imparare dagli atri, alla fine solo tu puoi vivere veramente la tua vita. Praticando la consapevolezza, pratichi anche un’assunzione di responsabilità, la responsabilità di essere te stessa e di imparare ad ascoltarti e ad avere fiducia nel tuo essere. Più coltivi questa fiducia nel tuo proprio essere, più troverai facile avere fiducia anche negli altri e contattare la loro bontà di fondo.

Non cercare risultati
Quasi tutto quello che facciamo lo facciamo per ottenere un certo risultato. Ma nella meditazione questo atteggiamento può essere un ostacolo. In questo la meditazione è diversa da ogni altra attività: perchè malgrado richieda un lavoro e una concentrazione di energia particolari, in ultima analisi la meditazione è non fare. Non ha altro scopo che quello di permetterti di essere te stessa.L’ironia è che lo sei già! Sembra un paradosso e una follia: ma questo paradosso può indicarti un nuovo modo di rapportarti a te stessa, un modo in cui il cercare di arrivare da qualche parte lascia sempre più il posto al semplice essere. Per esempio, ti siedi a meditare e pensi: “Adesso mi rilasso”. Oppure: “Non sentirò più il mio dolore”. O: “Diventerò una persona migliore”. O:“Raggiungerò l’illuminazione”. Così facendo, hai già programmato un’idea di come dovresti essere.Ad essa si accompagna inevitabilmente l’idea che non vai bene così come sei. Questo atteggiamento è un ostacolo allo sviluppo della consapevolezza, che richiede semplicemente di fare attenzione a qualsiasi cosa stia succedendo al momento. Se sei tesa, fai attenzione alla tensione. Se stai criticando, osserva l’attività della mente giudicante. Osserva semplicemente.Nella meditazione la via migliore per ottenere risultati è quella di non cercare di ottenere risultati, e di concentrare invece l’attenzione sul vedere e accettare le cose così come sono, momento per momento. Con pazienza e con una pratica regolare, il movimento verso i risultati avverrà da sé.Esso sarà uno sviluppo spontaneo: tu ti limiti a fargli spazio e a invitarlo dentro di te.

Accettazione
Accettazione significa vedere le cose così come sono nel momento presente. Nella vita di ogni giorno spesso sprechiamo una gran quantità di energia nel resistere a ciò che già di fatto è così com’è. Cercando di forzare le situazioni a essere come vorremmo che fossero creiamo solo ulteriori tensioni che ostacolano la guarigione, la crescita e il cambiamento positivo. Per esempio, se ti senti grassa e il tuo corpo non ti piace e sei disposta ad apprezzarlo solo il giorno che avrà il peso che vuoi tu, questo atteggiamento non ti aiuta, genera un circolo vizioso. Non amando il tuo corpo, sei meno sensibile alle sue esigenze e meno capace, per esempio, di fornirgli l’alimentazione di cui ha bisogno. Se vuoi uscire da questa situazione frustrante sarà bene che tu prenda in considerazione la possibilità di amarti così come sei ora, perchè ora è il solo momento in cui puoi amarti. Ricorda, ora è il solo momento che hai a disposizione per qualsiasi cosa! Ogni cambiamento passa in primo luogo attraverso l’accettazione di te stessa così come sei. Coltivando l’accettazione crei le condizioni preliminari per la trasformazione. Accettazione non significa che deve piacerti tutto di te o che devi assumere un atteggiamento passivo e rinunciare ai tuoi principi e ai tuoi valori. Non significa che devi essere soddisfatta delle cose così come sono o rassegnata.L’accettazione di cui parlo è semplicemente una disponibilità a vedere le cose così come sono. E’l’atteggiamento che pone i presupposti per una azione appropriata nella tua vita, di qualsiasi cosa si tratti. E’ molto più facile agire con convinzione e con efficacia quando abbiamo una chiara immagine di come stanno le cose, che quando la visione è velata da giudizi e desideri.

“Lasciare andare”
Coltivare il non attaccamento, la capacità di lasciare andare è fondamentale per la pratica della consapevolezza. Quando cominciamo a fare attenzione alla nostra esperienza interna, ben presto scopriamo che ci sono pensieri, sentimenti e situazioni che la mente vuole trattenere. Se sono piacevoli, cerchiamo di prolungare questi pensieri, sentimenti e situazioni o di rievocarli continuamente. Analogamente, ci sono pensieri sentimenti e esperienze che cerchiamo di evitare, da cui vogliamo proteggerci perchè sono spiacevoli, dolorosi o spaventosi. Nella pratica della meditazione, mettiamo deliberatamente da parte la tendenza della mente ad attaccarsi a certi aspetti dell’esperienza e a respingerne altri. Lasciamo invece che l’esperienza sia quello che è e la osserviamo istante per istante. Il non attaccamento, il lasciare andare, è una forma di accettazione delle cose così come sono. Quando ci ritroviamo a giudicare la nostra esperienza, possiamo lasciare andare quei giudizi. Ci limitiamo a registrarli, senza dare loro ulteriore energia.Accettandoli come esperienza del momento, li lasciamo andare. Similmente, quando si presentano pensieri legati al passato o al futuro, li osserviamo e li lasciamo andare.
(Tratto da: Kabat-Zinn, J., Vivere momento per momento, TEA PRATICA, 2010. Pag. 31-39.)

“[…] Io e mia figlia Gina stavamo camminando su una meravigliosa e sottile striscia di sabbia su un’isola della Thailandia settentrionale. Essendo giovane,Gina era soggetta a crisi emotive. Quel giorno aveva un problema: un’attrazione non corrisposta per un ragazzo in America. Mentre camminavamo, lei parlava e mi spiegava che doveva telefonargli. Le chiesi se era sicura di voler sprecare tempo, in quel luogo paradisiaco, per escogitare una strategia di conquista.
Gina, rendendosi conto che non stava nemmeno guardando quella splendida acqua color turchese, rispose: «No,ma che cosa dovrei fare? Come posso liberarmi di questo sentimento? Avrei potuto liquidare il tutto come un dramma adolescenziale, quando mi venne un’idea. Domandai a Gina che cosa percepisse nel corpo, particolarmente nell’area del petto. Lei rispose che provava tensione e calore. Le dissi di fare qualche respiro e le chiesi di definire a parole quel che provava. «Provo tristezza e paura di essere respinta» rispose immediatamente. Ma, parlando, si rese conto che questo sentimento faceva emergere una tristezza più profonda e non riconosciuta.
Con tanto amore nel cuore, le dissi: «Tesoro, non ti sottovalutare. I pensieri e le emozioni non sono il tuo vero sé. Loro ti attraversano, ma non sono te»-
Gina si fermò. Sembrava Mosè davanti al roveto ardente. La sua mente si arrestò per un momento. Per lei, quella semplice verità aveva il potere di una sacra rivelazione.
Ci stendemmo sulla sabbia e guardammo in alto. Le dissi: «Sei splendida come il cielo azzurro sopra di noi. Le tue emozioni sono come nuvole che passano in cielo. Questa storia di amore non corrisposto è soltanto una nuvola che passa. Le emozioni, come le nuvole, possono essere potenti e dolorose. Talvolta sembrano così grandi da coprire il sole. Ma sono passeggere. Non farti ingannare»
Le chiesi se riusciva a trovare qualche parte del suo essere che potesse accogliere quella tristezza. Vedevo che cercava, e alla fine trovò una parte più spaziosa. Le domandai
di prestare attenzione al rapporto fra. la tristezza e questa nuova spaziosità.
Gina osservò: «Oh, il rapporto tra le due lascia emergere un’altra dimensione».
«Bene» dissi. «Lascia che si mescolino e che quest’altra
 dimensione assorba tutto»
. A poco a poco, la sua infatuazione svanì e lei si vide in modo completamente diverso.
La capacità di vedere i nostri drammi interiori senza perderci in giudizi e in reazioni è essenziale per la crescita spirituale. Quando cerchiamo di scacciare le emozioni penose, insieme con le sensazioni e gli stati d’animo che le accompagnano, in realtà le tratteniamo. Quando le chiudiamo dentro di noi, non diamo loro lo spazio di cui hanno bisogno per spiegarsi e rivelarsi, per mostrarci cosa hanno da insegnarci. […]”
(Tratto da“I cinque inviti” di Frank Ostasesky, brano letto dalla Dott.ssa Massimilina Molinari durante il laboratorio “I sette pilastri della pratica: lasciar andare” del 15 gennaio 2021).

“Un vero sorriso è quello che arriccia gli occhi, tempera il cuore e distende l’anima.”
(Fabiana Fondevila)


A volte ci troviamo a vivere immersi nel fare e nei nostri pensieri. Proviamo a fermarci ogni tanto e ad alzare gli angoli della bocca, sorridendo, lasciando che si attivi il nostro sistema nervoso autonomo parasimpatico, andando verso il rilassamento.
Serena giornata….coltivando il sorriso.
(Massimiliana Molinari)