Identificazione con la sofferenza

“[…] Ho scelto, più o meno inconsapevolmente di mantenere l’aderenza ad un’immagine di me (alla personalità) che mi sono  costruito negli anni, perché in un dato momento della mia storia ho percepito essere l’unico modo per essere riconosciuto (accolto? Amato?): “essere come pensavo che gli altri avrebbero voluto che io fossi”, con l’illusione che ciò allontanasse il dolore e la sofferenza di quella ferita. Ma tale modalità ha determinato un’identificazione forte con la mia immagine, e quindi (ecco il paradosso) anche l’identificazione con la mia sofferenza (ciò che pensavo essere una soluzione è diventata la causa scatenante di quella sofferenza): “io sono colui che soffre, quindi se soffro esisto”. Se da questo piano di personalità, togliessi la sofferenza, mi sentirei perso (perderei un ambito ormai ben conosciuto su cui ho costruito anche una mia modalità di vivere), e perderei l’illusione di poter controllare la mia realtà. Quindi mi lego (identifico) con la mia sofferenza, ma questo mi tiene separato dalla mia natura vera e da tutte quelle esperienze che potrebbero farmi sperimentare piacere. La paura di allontanarmi da quello spazio ormai conosciuto (identità con la sofferenza) mi blocca. Ma se invece mi spostassi su un piano di consapevolezza, e quindi aprissi il mio spazio interiore all’esperienza diretta (senza ideali, senza immagini, senza il “dover essere”), ed iniziassi ad entrare in confidenza e senza giudizio con ciò che effettivamente sento (corpo, emozioni, pensieri) potrei ricontattare il mio essere vero. Sicuramente è un percorso di progressiva vulnerabilità, cioè man mano che inizio a entrare in contatto con me inizio a sentire il dolore di ciò che ho percepito essere la ferita originale, e poi della presa di coscienza del dolore che mi sono fatto tradendo me stesso, creandomi una struttura egoica difensiva, giudicante e  limitante (immagine ed identificazione con la sofferenza), che ha determinato la separazione dalla mia vera natura, dalla mia Essenza.  Entrando così in confidenza con il mio dolore, questo perderebbe lentamente intensità. Quindi, non occorre che combatta le mie ferite, invece posso prenderne atto, oggi, come delle risorse, opportunità, delle porte da cui entrare per osservare la mia realtà interiore, che, non posso nasconderlo può essere anche dolorosa. Il dolore è un aspetto naturale della vita, non possiamo escluderlo (se mi cade un sasso su un piede sento il dolore), invece  la sofferenza è la resistenza a sentire un dolore. Se io resisto ad un’esperienza di dolore creo sofferenza. La mente lavora sul rifiuto e sulla speranza, la speranza che il futuro cambi ciò che provo o vivo in questo momento (non accetto la realtà del momento se contraria ad una mia aspettativa od ad un mio “dover essere”) , mentre essere consapevoli significa stare nella realtà del presente, senza aspettarsi niente, semplicemente stare con quello che si manifesta dentro di me, senza giudizio e senza separare o scartare le esperienze.
Dentro ogni ferita c’è una verità, ogni volta che faccio un’esperienza diretta di un qualcosa lì c’è la mia verità. Per questo cerchiamo di manipolare la realtà, per non sentire oggi un dolore forse antico, ma così viviamo in uno stato continuo di sofferenza. Impariamo quindi a non sperare, ma semplicemente a stare nella verità della realtà del momento presente. Dopotutto la realtà non può essere manipolata, basti pensare che la mente subconscia processa 20.000.000 di stimoli ambientali al secondo contro i 40 processati dalla mente conscia, quindi il controllare una realtà così estesa e in continua mutazione è solo una nostra illusione. […].”

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