Archivio mensile:Luglio 2016

Il “senso del dovere”

“[…] Al “senso del dovere” è spesso riconosciuto un valore positivo, un valore alto, nobile. Quante volte con decisione ed anche con un po’di soddisfazione ci si dichiara persone “con un alto senso del dovere”, che socialmente ha anche una valenza di affidabilità (di persona seria ed affidabile). Eppure, se mi fermo ad ascoltarmi, di tutto questo gran “senso del dovere” e ciò che comporta ne ho una percezione leggera o pesante? Sento fluidità o attrito nel condurre la mia vita quotidiana agendo secondo tale “senso del dovere”?
 “Il senso del dovere” è il richiamo ad un insieme di regole, insegnamenti che ho ricevuto dal mio ambiente di sostegno prima, e dalla socializzazione successivamente (il “dover fare” le cose in un certo modo, il “dover essere” in un certo modo). Un insieme di “norme” (spesso non scritte) di comportamento e di modalità di essere che posso aver percepito come condizionante, limitante, ma che comunque, ancora oggi, continuo a seguire. Infatti, quotidianamente rispondo alle situazioni che la vita mi presenta richiamandomi a quest’insieme di regole e seguendo questo “senso del dovere”, in maniera molto automatica, senza effettivamente valutare se possa esserci anche un’altra risposta, più spontanea e nuova. Quindi, se inizio ad indagare questo “senso del dovere”, alla fine ha poi tutto questo grande valore positivo che gli attribuisco e gli attribuiscono? O, invece, posso concedermi di sentire che l’aderire a questo “senso del dovere” provoca anche una limitazione alla mia libertà, al mio essere vero? Rispondendo alla vita solo con il “dover essere” non è che mi sto castrando? Cioè, non sto castrando la mia energia vitale, non è che mi sto impedendo di vivere pienamente le esperienze della vita? Non è che mi sto limitando, agendo ogni volta nello stesso modo pur trovandomi in situazioni diverse? La risposta a queste domande passa, come al solito, dall’ascolto di me stesso. Solitamente, agendo rispettando il mio “senso del dovere” posso sentire della rabbia ed o del disagio e il mio agire è spesso serio. Se inizio ad ascoltare questi sintomi, posso iniziare a comprendere che, forse, sto rispondendo automaticamente ad una situazione di vita quotidiana seguendo uno schema ideale  (l’insieme di regole) del “dover fare o del dover essere”. Ma, forse, se seguissi il mio vero essere, la mia vera natura, la mia Essenza, agirei diversamente. Quindi, sto agendo in una modalità che non mi piace, facendo o dicendo qualcosa che non mi piace ma non mi concedo di riconoscerlo e di dirmelo. Prevale la mia paura di venir meno (tradire) a quell’insieme di regole del dovere. Oppure, se inizio a pensare di voler tradire (uscire fuori da questo antico sistema di norme) ecco arrivare il senso di colpa, il timore, appunto, di aver tradito un’eredità antica, di come, ho pensato che avrei dovuto e dovrei essere agli occhi degli altri. Il senso di colpa è l’illusione di poter dare una verginità al mio agire che si è discostato da quel modello del dovere, illudendomi, ancora una volta, di poter controllare la realtà che fluidamente, invece, muta di attimo in attimo . Da tutto questo attrito interiore ecco sorgere rabbia e o disagio.
Quando inizio a sentire queste sensazioni di disagio e di serietà basterebbe che mi fermassi un momento e mi ascoltassi, senza agire in una modalità automatica e senza attingere esclusivamente al mio antico senso del dovere. Da questo spazio di neutralità, posso iniziare ad osservare le infinite possibilità di azione che mi si aprono e quindi ascoltare quello che, senza alcuna interferenza, la “mia guida interiore”, cioè il mio sentire vero, mi suggerisce a fare, ma anche a non fare. Questo fase è difficilissima, in quanto molto dolorosa. Perché significa, come già detto, tradire una forte e antica credenza che mi sono costruito e su cui ho costruito molto della mia vita anche recente, una immagine (credenza, maschera) a cui sono molto identificato, e senza la quale mi sentirei perso. Un passaggio quindi, solo inizialmente doloroso (più doloroso se l’identificazione è molto forte), ma l’unico che può portarmi, poi, attraversando questo dolore e prendendo atto del mio meccanismo di identificazione con questa immagine, all’essere effettivamente libero, essere vero, essere me stesso essere Essenza. E da questo spazio di consapevolezza, posso percepire quell’insieme “di senso del dovere” come una semplice eredità, senza attribuirgli carichi di aspettative e di ideali da raggiungere, ed a cui poter anche attingere, quando, ascoltandomi sinceramente, sentirò adatto per una certa situazione, ma senza obblighi, senza rigidità e in piena libertà. […].”
(Laboratorio di Pratica della Presenza )

Il percorso di consapevolezza

“[…] Il percorso di consapevolezza è un percorso integrativo ed inclusivo. Cioè un cammino in cui accolgo tutto ciò che sento dentro di me, colgo la moltitudine di sensazioni in continuo movimento, attimo per attimo. E mi apro alle percezioni piacevoli o spiacevoli che si presentano: ad esempio, se sento nel corpo un insieme di sensazioni che per abitudine definisco come paura, non lo rifiuto non lo respingo, semplicemente ne faccio esperienza nel corpo, senza giudizio, ascolto cosa mi accade, e senza dare a questo sentire l’etichetta di “paura” (con tutto il carico emotivo, sociale e storico che tale parola si porta dietro). Così, esploro le mie sensazioni fisiche, mi sento con curiosità, mi apro a cosa mi accade e, comunicandomi cosa mi accade, mi concedo anche di scoprire qualcosa di nuovo: “forse non è paura”. Quindi, è un percorso in cui non interferisco, cioè non pongo preferenze od effettuo scelte limitanti riguardo a ciò che sento, non ho aspettative o ideali da soddisfare, non c’è un giusto o uno sbagliato in quello che emerge dall’ascolto di me, ma, semplicemente lascio che le cose avvengano, si manifestino: integro le sensazioni, il mio sentire al di là del mio volere. Così, imparo a non interferire nel fluire della mia realtà. Un non interferire a cui non sono abituato: fin dalla culla subisco interferenze, prima indispensabili dall’ambiente di sostegno, poi, con il crescere sono io, ed il mio sistema di regole e di condizionamenti a cui aderisco, ad interferire nel fluire naturale del mio Essere, inizio così a limitarmi nelle esperienze o perfino a privarmene. Infatti, la mia personalità (l’immagine che mi sono costruito per rispettare un “dover esser”, un modello ideale) ha bisogno di controllare la realtà, ha bisogno di spazi di azione delimitati, sebbene possano essere anche dolorosi, in quanto  non vuole perdersi nella fluidità, perché la realtà è imprevedibile e continuamente mutevole, improvvisa, e non sono abituato, anche per antichi condizionamenti, a stare in questa energia.
Quindi, nello spazio della mia personalità il sentire è quello della separazione, del separarmi dalle esperienze che vivo, separarmi dal mio Essere, e il sentirmi separato ed isolato si manifesta, così, con un senso di mancanza. Ma il tema della mancanza è una menzogna, infatti, sul piano della mia Essenza (dell’essere vero) io non manco di niente, sono perfetto così come sono, sono un Essere straordinario e, quindi, ordinario allo stesso tempo. Invece, cerco fuori quello che ho già, quello che è già dentro di me. Il continuo cercare fuori quello che, senza accorgermi, ho già, alimenta, da adulto, il mio malessere, la mia sofferenza (il mio valore, l’amore per me stesso, il mio essere speciale non può venire da fuori come riconoscimento, in quanto è già in me). Per togliermi da questa sofferenza  basta che rientri in contatto con il mio vero Essere, e quindi che perda l’identificazione con la mia personalità (non combatto la personalità, ma la mia identificazione con essa) e che abbandoni la convinzione che io non vada bene perché penso che mi manchi qualcosa. Il peccato originale è stato quello di essermi dimenticato, tanti anni fa, della meraviglia che sono. Il cammino di consapevolezza quindi è un cammino per ritornare a me stesso, non un andare avanti, bensì un tornare alla sorgente, al mio valore speciale. Non c’è niente da raggiungere o cercare, ho tutto quello che mi serve qui ed adesso. Dentro di me. Tutto, niente è escluso[…]”
(Laboratorio di Pratica della Presenza)

Identificazione con la sofferenza

“[…] Ho scelto, più o meno inconsapevolmente di mantenere l’aderenza ad un’immagine di me (alla personalità) che mi sono  costruito negli anni, perché in un dato momento della mia storia ho percepito essere l’unico modo per essere riconosciuto (accolto? Amato?): “essere come pensavo che gli altri avrebbero voluto che io fossi”, con l’illusione che ciò allontanasse il dolore e la sofferenza di quella ferita. Ma tale modalità ha determinato un’identificazione forte con la mia immagine, e quindi (ecco il paradosso) anche l’identificazione con la mia sofferenza (ciò che pensavo essere una soluzione è diventata la causa scatenante di quella sofferenza): “io sono colui che soffre, quindi se soffro esisto”. Se da questo piano di personalità, togliessi la sofferenza, mi sentirei perso (perderei un ambito ormai ben conosciuto su cui ho costruito anche una mia modalità di vivere), e perderei l’illusione di poter controllare la mia realtà. Quindi mi lego (identifico) con la mia sofferenza, ma questo mi tiene separato dalla mia natura vera e da tutte quelle esperienze che potrebbero farmi sperimentare piacere. La paura di allontanarmi da quello spazio ormai conosciuto (identità con la sofferenza) mi blocca. Ma se invece mi spostassi su un piano di consapevolezza, e quindi aprissi il mio spazio interiore all’esperienza diretta (senza ideali, senza immagini, senza il “dover essere”), ed iniziassi ad entrare in confidenza e senza giudizio con ciò che effettivamente sento (corpo, emozioni, pensieri) potrei ricontattare il mio essere vero. Sicuramente è un percorso di progressiva vulnerabilità, cioè man mano che inizio a entrare in contatto con me inizio a sentire il dolore di ciò che ho percepito essere la ferita originale, e poi della presa di coscienza del dolore che mi sono fatto tradendo me stesso, creandomi una struttura egoica difensiva, giudicante e  limitante (immagine ed identificazione con la sofferenza), che ha determinato la separazione dalla mia vera natura, dalla mia Essenza.  Entrando così in confidenza con il mio dolore, questo perderebbe lentamente intensità. Quindi, non occorre che combatta le mie ferite, invece posso prenderne atto, oggi, come delle risorse, opportunità, delle porte da cui entrare per osservare la mia realtà interiore, che, non posso nasconderlo può essere anche dolorosa. Il dolore è un aspetto naturale della vita, non possiamo escluderlo (se mi cade un sasso su un piede sento il dolore), invece  la sofferenza è la resistenza a sentire un dolore. Se io resisto ad un’esperienza di dolore creo sofferenza. La mente lavora sul rifiuto e sulla speranza, la speranza che il futuro cambi ciò che provo o vivo in questo momento (non accetto la realtà del momento se contraria ad una mia aspettativa od ad un mio “dover essere”) , mentre essere consapevoli significa stare nella realtà del presente, senza aspettarsi niente, semplicemente stare con quello che si manifesta dentro di me, senza giudizio e senza separare o scartare le esperienze.
Dentro ogni ferita c’è una verità, ogni volta che faccio un’esperienza diretta di un qualcosa lì c’è la mia verità. Per questo cerchiamo di manipolare la realtà, per non sentire oggi un dolore forse antico, ma così viviamo in uno stato continuo di sofferenza. Impariamo quindi a non sperare, ma semplicemente a stare nella verità della realtà del momento presente. Dopotutto la realtà non può essere manipolata, basti pensare che la mente subconscia processa 20.000.000 di stimoli ambientali al secondo contro i 40 processati dalla mente conscia, quindi il controllare una realtà così estesa e in continua mutazione è solo una nostra illusione. […].”

Martedì 19 luglio – Meditazione del Plenilunio – Ingresso gratuito

Orario: dalle 20 alle 21,15 circa
Centro Studi di Psicoterapia e di Crescita Umana – Via Marsala 11 – 50135 – Firenze

Meditazione per entrare in contatto con l’energia dei Maestri di Luce

Meditazione introdotta e condotta da Massimiliana Molinari
Si consiglia un abbigliamento comodo e nella sala di meditazione si accede senza scarpe.

Ingresso gratuito – Prenotazione obbligatoria.

Dati i posti limitati, si invita, chi è interessato a partecipare, di dare la propria adesione quanto prima, solo via mail o telefono, e di dare l’eventuale disdetta, possibilmente, non all’ultimo, in modo da permettere ad altri di partecipare. Grazie.
Per informazioni e iscrizioni:
3396788142 oppure: psicoterapiaecrescitaumana@gmail.com

Autonomia

“[…] La parola “autonomia” deriva dal greco “auto-nomos”, cioè “legge propria”. Quindi, comportandomi secondo ciò che effettivamente sento e sono (secondo la mia “legge”), mi concedo di essere me stesso, di essere in contatto con me e con la mia essenza. Non ho bisogno del riconoscimento altrui per sentirmi vivo ed avere un valore (sono “autonomo”). Invece, se da adulto mi comporto seguendo ancora un modello di regole, di obblighi, di esempi da seguire di cui ho fatto esperienza nel mio ambiente di sostegno di origine di un passato più o meno remoto, nonostante lo abbia vissuto come un limite o come un condizionamento forte, allora sto mettendo in mostra un’immagine di me (essere quello che penso che gli altri desidererebbero che io sia) e non manifesto il mio essere vero. Agisco in tal modo ancora con l’illusione di essere accolto e accettato dagli altri. Agisco così senza ricordarmi (cioè senza portarci attenzione e presenza) che non sono stato condizionato da quel modello, ma sono stato io, nella mia storia personale e in maniera più o meno inconsapevole, a condizionarmi aderendo a quel modello (e continuando ad aderirci). Mi sono condizionato per non sentire più un malessere, una ferita che percepii come tali (non essere visto, accolto, riconosciuto, compreso…. amato?), e dentro di me continua ancora adesso, come allora, l’illusione che se continuerò ad aderire a quel modello e ciò che ne consegue, potrò finalmente andar bene ed essere accolto […]. Perdendomi in questo “mio film” mi dimentico di vivere la mia vita, di agire ciò che veramente desidero per me stesso. […] .”
<<[…] Il “trauma” non è l’evento, ma la nostra risposta a quell’evento. […]”
(Laboratorio di Pratica della Presenza)

Praticare la presenza

“[…] Per poter praticare la presenza, cioè per vivere pienamente il momento presente, il “qui ed ora”, occorre fare i conti con la nostra vulnerabilità, con la nostra ferita. Invece, la maggior parte delle nostre esistenze sono spese in uno stato di allarme e nella costante difesa in vista di un possibile “pericolo”. Una continua attività di prevenzione anche quando non esiste alcun pericolo reale, dettata dai nostri condizionamenti che ci dicono quotidianamente che dobbiamo difenderci, oggi, da ciò che, presumibilmente, abbiamo percepito o vissuto in un passato lontanissimo. Così, la vulnerabilità è associata a qualcosa di negativo, ma, invece, se mollo la mia difesa (la mia risposta automatica ad un particolare evento o situazione: reazione, rabbia, fuga, isolamento, ecc..), se smetto di difendermi (e difendere l’immagine di me che voglio far passare) ed entro in contatto con la mia vulnerabilità, posso iniziare ad aprirmi a me stesso ed agli altri. Entrare in contatto con il mio essere vero ed essenziale. Quando ci difendiamo invece guardiamo solo fuori di noi, ma senza un vero contatto con noi stessi non potremo avere alcuna relazione di qualsiasi tipo con l’altro e con gli altri. […]”
(Laboratorio di Pratica della Presenza)

Tradire

[…] Tradire, da “trad-ire”, cioè “uscire da”. Spesso, nel descrivere un nostra certa sensazione nel compiere o nel pensare di compiere un’azione verso qualcun altro, usiamo il verbo “ tradire”, o il sostantivo “tradimento”: <<se lo facessi tradirei la fiducia dell’altro>>, << mi sento in colpa in quanto è come un tradimento>>. Nella nostra antica storia personale, spesso abbiamo sperimentato, solitamente come un indefinibile attrito o disagio interiore, la sensazione e il timore che con le nostre azioni o non azioni potessimo tradire la lealtà a quel modello di regole, comportamenti, doveri, obblighi, ecc…  del nostro ambiente di sostegno originario, qualunque esso fosse, alle volte percepito in maniera inconsapevole come limitante, invadente, opprimente, ma anche “castrante”. Un modello a cui abbiamo sentito comunque l’obbligo di aderire per essere accettati, accolti e riconosciuti (amati?). Ottenendo così, però, il riconoscimento non del nostro essere veri  e della nostra ricca essenza, ma, solo della nostra immagine, di ciò che effettivamente mostravamo e volevamo che gli altri vedessero di noi (o che pensavamo piacesse a loro vedere di noi). Per poter essere accolti e riconosciuti abbiamo così indossato un’immagine, di essere come pensavamo che gli altri avrebbero voluto che noi fossimo. Quindi, anche l’esserci allontanati dal nostro essere veri, dalle nostre essenze, ha determinato un tradimento delle nostre vere nature, un “uscire da” noi, che continuiamo spesso, ancora oggi, da adulti, a perpetrare, mantenendoci legati a quell’originario ed antico modello percepito, ed ad manifestare così solo un immagine di noi. […]”
(Laboratorio di Pratica della Presenza)

La rigidità del mio giudice

“[…] Il mio giudice interiore (la definizione “giudice interiore” è una semplificazione, un’etichetta, per rappresentare quel complesso di credenze, limitazioni, difese, condizionamenti, ecc… che, nella mia storia personale, mi sono dato, mi sono “costruito” ed a cui aderisco nell’agire le mie modalità difensive) è un sistema rigido, cioè risponde nelle varie situazioni nella stessa modalità (paura, rabbia, fuga, svalutazione…), quindi, non tiene conto del contesto in cui mi trovo e delle varie possibilità che, invece, l’esistenza mi offre quotidianamente, tagliando via così opportunità ed esperienze dirette di vita. Inoltre, tale rigidità di manifesta anche quando sono di fronte a delle scelte. Infatti, quando le scelte si limitano a due opzioni: <<devo scegliere tra “o” od “o”>> (e già il “devo” è sintomatico di “giudice”), cado in una situazione di conflitto, di opposizione, di separazione, perché comunque sento che perderò qualcosa. Invece, se mi apro alle infinite possibilità della mia vita e della mia esperienza diretta, le scelte sono infinite, sono tra “e” ed “e”, e qui non c’è opposizione, separazione ma integrazione. […]”
(Laboratorio di Pratica della Presenza)

Perché mi sforzo?

“[…] Se ho fiducia nell’esistenza, se ho fiducia in me, non devo trovare soluzioni, infatti, ciò che mi serve, è già in me, è una mia risorsa interna. Invece, il voler trovare le soluzioni e ricercare qualcosa che penso che mi manchi è un tentativo egoico ed illusorio. Egoico in quanto agito dalla mia volontà di personalità: mantenere l’immagine che ho di me e che voglio dare di me, immagine che è diversa dal come, essenzialmente, sono. Illusorio in quanto credo di poter aggiustare le cose, di poter controllare il fluire della realtà (l’illusione di controllare). Illusorio anche perché convinto che io sia mancante di un qualcosa e quindi debba ricercare fuori di me ciò che penso (erroneamente) che mi manchi. Questa affannosa ricerca (illusoria) fuori di me di un qualcosa che, invece, è solo e già in me e la ricerca continua di una soluzione, si manifestano in un agire nel quotidiano con sforzo, e con la separazione da me e dagli altri. Se vivo nello sforzo e se sento separazione significa che è attivo il mio giudice interiore (condizionamenti, convinzioni, limitazioni, tabù, ecc…): “devo fare qualcosa, devo trovare una soluzione valida per ogni situazione, devo essere diverso, così tutto andrà bene, così andrò bene”. Quindi, la domanda da farci è: perché mi sforzo? […]”
(Laboratorio di Pratica della Presenza)